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Il caso Moro

di Alessandra Stoppini

Nelle scorse settimane, dopo quarant’anni dell’eccidio degli agenti della guardia del corpo di Aldo Moro, del suo sequestro  e dei 54 giorni nella “prigione del popolo” e del ritrovamento del suo corpo, significativamente,  a poca distanza dalle sedi del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Gianni Gennari, collaboratore fedele della nostra rivista su questa vicenda, che ha vissuto la vicenda Moro in prima persona, ha rilasciato un ‘intervista alla giornalista Alessandra Stoppini, di cui pubblichiamo stralci significatovi soprattutto per la testimonianza di fede di tante persone. Non ultimo il papa Paolo VI. 

Gianni Gennari è nato il 2 aprile 1940 a Roma e conobbe personalmente lo statista democristiano. 

La prima domanda  a Gennari è stata  sul «Partito della fermezza» che è stato.

«È vero che Moro venne ucciso per mettere fine al suo disegno politico che riguardava anche i suoi rapporti con gli Stati Uniti, con l’Unione Sovietica di allora e anche con Israele. Secondo il mio parere il figlio di Moro, Giovanni, ha torto a prendersela con il cosiddetto “partito della fermezza”, che in qualche misura non c’è mai stato. Coloro che non hanno consentito un dialogo paritario con le Br, hanno sperato fino in fondo che lo statista Dc si salvasse. Mettere contro la vita di Moro, Paolo VI ed Enrico Berlinguer è un’ingiustizia storica di cui sono stato testimone personale. Furono fatti tutti gli sforzi possibili soprattutto da Papa Montini e della Santa Sede, attraverso Mons Cesare Curioni intermediario nei confronti dei capi delle Br di allora. Renato Curcio e Alberto Franceschini, fondatori ed esponenti di spicco delle Brigate Rosse, con Margherita Cagol, erano finiti in prigione. […] Mario Moretti  da quel momento divenne il capo delle Br, nonché l’ideatore della “strategia della tensione” e del rapimento Moro. Non è vero che “il partito della fermezza” rifiutò di salvare Moro, rifiutò l’idea che si potesse trattare su un piano di parità con le Br, promuovendo un gruppo di terroristi a interlocutore politico delle Istituzioni».

Lei venne ascoltato dalla Commissione d‘inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, perché nel periodo del sequestro dello statista democristiano era assistente spirituale di Benigno Zaccagnini, allora segretario della Dc, e aveva contatti con diversi esponenti politici. Ce ne vuole parlare?

«Finalmente, dopo 39 anni, nell’ottobre del 2017, sono stato convocato dalla Commissione, eppure avevo già scritto nel 2011 un memoriale pubblicato in esclusiva in tre puntate su Affaritaliani.it. La sera dopo il rapimento mi chiamò la cognata di Benigno Zaccagnini, Ettorina Brigante, sorella di sua moglie Anna, la quale abitava in via della Camilluccia, perché Zaccagnini (il quale quando veniva a Roma era ospite del cognato, il dottor Elio Brigante) aveva bisogno di un sostegno spirituale. Trascorsi tantissime notti di quei 54 giorni a pregare con Benigno e la famiglia Brigante. Allora potei constatare le falle nel sistema di sicurezza: la sera dopo il rapimento Moro, arrivai fino alla portineria del palazzo dove stava Zaccagnini, segretario Dc, senza aver incontrato qualcuno che mi fermasse, mi controllasse, ecc. Eppure dicevano che allora Roma era sotto controllo».

Gennari, lei era molto amico di Mons Cesare Curioni, allora storico cappellano a San Vittore e poi ispettore generale dei cappellani di tutte le carceri italiane, il quale portò avanti l’iniziativa di raccogliere 10 miliardi dell’epoca per offrirli come riscatto alle Brigate Rosse, in cambio della vita di Aldo Moro. È vero che l’iniziativa partì direttamente da Paolo VI?

«Certamente, avvenne tutto attraverso Curioni, il quale parlò anche con Curcio e Franceschini che si trovavano in prigione. Questi brigatisti all’interno del carcere dicevano a tutti “Lo abbiamo in mano”, invece apertamente a Mons Curioni dissero “Non ne sappiamo nulla”. Nel numero di aprile del 1978 di “Civiltà Cattolica” c’era scritto che, pur senza un riconoscimento, bisognava fare tutto il possibile per la salvezza di Aldo Moro. Paolo VI aveva preso un impegno personale, erano stati raccolti 10 miliardi di lire per un eventuale riscatto. La mattina del 9 maggio era attesa una telefonata liberatoria che avrebbe significato l’accettazione dello scambio, liberare Moro in cambio della scarcerazione della brigatista Paola Besuschio che era in prigione. Fanfani aveva l’incarico nella direzione della Dc di annunciare che si era trovata una mediazione. Invece, proprio quella mattina, arrivò come una “doccia fredda” la tragica notizia del ritrovamento del corpo di Aldo Moro».

«Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui».  Queste sono le parole che il 22 aprile 1978 Papa Montini scrisse di suo pugno nella lettera-appello alle Brigate rosse che da più di un mese tenevano prigioniero il Presidente della Dc. 

«Sì, e non è un caso se Montini muore pochi mesi dopo quel tragico 9 maggio, il 6 agosto. Moro e Montini si conoscevano fin dagli anni Trenta. Nel 1939 Montini, assistente generale della Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), aveva voluto come presidente dell’associazione il giovane Aldo Moro. L’amicizia tra Moro e Montini era quindi di lunga data e al di sopra di ogni sospetto. Tornando ai giorni del sequestro, durante la notte Papa Montini chiamò al telefono Curioni, che allora si trovava ad Asso in provincia di Como per un periodo di ferie, e insieme concepirono l’appello. Fin dalla prima stesura risultava quella frase “senza alcuna condizione”, sulla quale si è fermata la curiosità lungo tutti questi anni. Si trattava non solo di salvare la vita di un uomo, giacché Paolo VI aveva molto chiaro il fatto che il progetto di politica interna ed estera di Moro era vicino alle prospettive della sua “Ostpolitik”. È arrivato il momento di parlare del “Compromesso storico” cioè la tendenza al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, osservata nel nostro Paese negli anni Settanta. Il segretario comunista Enrico Berlinguer e il presidente democristiano Aldo Moro, furono i principali fautori dell’opera di riavvicinamento tra le rispettive (e opposte) forze politiche, del Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana. Il loro disegno si era delineato già dal 1973. Il rapimento e l’assassinio di Moro fermarono tutto. Credo che l’unico che abbia chiara tutta la strategia sia Mario Moretti, basterebbe cominciare da quel mancato appuntamento a Pinerolo, dove lui non si fece trovare».

Quarant’anni dopo, qual è il pezzo di verità ancora da cercare oppure “l’Affaire Moro” resta un problema insoluto che riguarda il nostro Paese?

«Quel pezzo di verità ancora da cercare sarà difficile da rintracciare. L’”Affaire Moro” porta a qualche strategia in cui spuntano i servizi segreti italiani, israeliani, statunitensi e anche palestinesi con i quali Mario Moretti, attraverso anche personaggi appartenenti alle forze dell’ordine che fecero carriera, dal 1974 in poi, ha avuto rapporti. Se l’”Affaire Moro”, presenta ancora oggi molti lati oscuri, restando un mistero, resta invece chiarissima la strategia di chi ha voluto che quel progetto, che avrebbe cambiato il volto della politica italiana, non si realizzasse. Si sarebbe dimostrato che era possibile un cambiamento, chiamiamolo così, verso un socialismo dal volto umano, senza rivoluzione, senza sangue e senza armi. Il “Compromesso storico” era temuto dagli Stati Uniti, da Israele, ma era temuto anche dall’Urss. Basti pensare che il socialismo dal volto umano l’Urss l’aveva soffocato in Ungheria e Cecoslovacchia. Resta oscuro tutto l’intrico di corresponsabilità, di silenzi, segreti, falsificazione di documenti, che impedisce di arrivare alla verità sulla vicenda Moro».

Un’ultima domanda: in Italia per tanto tempo l’espressione “politico di professione” era diventata quasi un insulto, tanto è vero che oggi è motivo di vanto per i nuovi eletti in Parlamento non essere un politico. Nonostante ciò, molti italiani confessano di avere nostalgia di politici come Moro e i Berlinguer che di mestiere facevano politica.  Lei cos ne pensa?

«Per fare politica occorre avere una reale esperienza e una preparazione specifica. Quindi non ci si può improvvisare dall’oggi al domani. La politica è anche capacità di leggere la realtà sociale, è coinvolgimento con i problemi della gente, non è soltanto fatta di rimborsi elettorali o di immunità parlamentari. Se penso a De Gasperi, Togliatti, Nenni, Pertini, Zaccagnini e allo stesso Andreotti, nel paese di Lilliput, Gulliver è un gigante».