di Mario Carrera
Il Natale è la festa più cara al popolo cristiano. Oltre al fatto che Dio decida di entrare a far parte della nostra storia, prendendo una carne come la nostra, il Natale è un vento accarezzevole che muove le nostre vele sul lago della memoria. In questa galleria di ricordi c’è il mondo magico dell’infanzia, dei doni ricevuti e offerti. La nostalgia della famiglia riunita, il dolore di qualche assenza.
Natale è l’appuntamento annuale alla sorgente del fiume della salvezza. Come un fiume Dio è sempre in cammino alla nostra ricerca. Egli viene sempre. Il Dio invisibile diventa visibile e si fa compagno di viaggio nel cammino della vita.
Il senso del Natale è tutto qui: accettare Cristo come la garanzia di un amore personale che ci ha pensato sin dall’eternità e ci ha chiamato per nome. Il presepe, l’albero, le lucine sono la manifestazione gioiosa che ha le radici nel cuore stesso di Dio che manda il Figlio «a illuminare ogni persona che entra in questo mondo». Se perdiamo la linfa di questa radice, a Natale non nasce nessuno, è un Natale sterile, una culla senza vagiti: un Natale pagano e consumistico. Il Natale serve a recuperare la gioia dell’infanzia, veicolo della gioia di vivere. Perdere il senso del vivere è acciecare la speranza. Non dimentichiamo che è il fuoco che riscalda e non il fumo. È la barca che ci trasporta sul fiume e non la scia.
Il Natale è il regalo di Dio che dona un luccichio di gioia agli occhi dei bambini e agli adulti un tuffo tonificante nel lago di una sorridente memoria. In quella casetta di Nazareth, abitata da un giovane donna, Maria, Dio padre ha rivoluzionato le leggi: ha preso carne umana dal grembo di una donna vergine; ha sconvolto i piani del suo futuro sposo, Giuseppe, il carpentiere del paese.
Questo radicale intervento di Dio nella storia umana ha fatto paura ai potenti della terra e ha portato il riscatto agli «scarti» della società, i poveri senza alcun potere. Gli umili per primi sono stati ammessi alla corte del Creatore dell’universo. Il Figlio di Dio, apparso in forma umana, è adagiato nel gradino più basso della scala sociale.
A Betlemme nasce il Figlio di un Dio umile, innamorato delle nostre piccolezze, assume la nostra fragilità, la nostra sofferenza, le nostre angosce, i nostri desideri come pure i nostri limiti. L’ha ricordato papa Francesco «Dio che ci guarda con occhi colmi di affetto, che accetta la nostra miseria, Dio innamorato della nostra piccolezza». A Betlemme, in quella notte, i nostri rappresentanti furono i pastori, convocati dagli angeli alla scuola della tenerezza.
Ieri, come oggi, il mondo ha bisogno di tenerezza, bontà e mansuetudine. Lui si è fatto tenerezza affinché anche noi imparassimo a essere gentili e misericordiosi con il prossimo.
Qualche volta abbiamo paura di essere liberati dalla foschia che ci impedisce di vedere lontano. Abbiamo paura di mostrare tenerezza come se fosse un difetto. La tenerezza, contrariamente al comune modo di pensare, non è la virtù dei deboli.
Dostoevskij l’ha definita: «forza dell’amore umile». Papa Francesco ne ha fatto un pilastro del suo pontificato invitandoci a non averne paura perché con la forza umile della tenerezza possiamo ridare un volto umano al mondo. Don Primo Mazzolari in occasione di un Natale scriveva ai suoi parrocchiani: «Sappiamo di essere profanatori, ma agli occhi di Chi non ha orrore a farsi uno di noi, siamo dei poveri peccatori che in questo Natale, vicini alla gioia di sentirci redenti, portano un’infinita tristezza di non essere ancora cristiani». L’apprendistato della vita cristiana passa davanti alla grotta di Gesù. La «grande luce» è stata vista dai puri di cuore. Gli arroganti e i superbi sono stati incapaci di vedere la luce. La videro la gente semplice, disposta ad accogliere il dono di Dio «agli uomini che egli ama».