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Nel ricordo prezioso di p. Castelli, pubblichiamo il primo degli articoli, preparati prima della sua morte per la Rivista "La Santa Crociata in onore di San Giuseppe"

di p. F. Castelli

Con la preghiera i poeti hanno un rapporto particolare. Il motivo è semplice: ce lo suggerisce Adam Zagajewki, poeta polacco vivente. Egli ha definito la poesia «un certo stato mentale, eccezionale e straordinario», necessario perché «ci innalza al di sopra della meschina rete empirica delle circostanze che forma il nostro destino e il nostro limite. Ci innalza al di sopra del quotidiano, cosicché possiamo scrutare il mondo attentamente e ardentemente».
Al di sopra del quotidiano c’è la sfera della trascendenza, dell’assoluto, dell’eterno. La sua percezione si trasforma in nostalgia e in percezione di un mondo nel quale trovino compimento le nostre aspirazioni più radicate e universali, dunque in invocazione di aiuto per raggiungere questo mondo. La preghiera pertanto è una delle più naturali espressioni della poesia. Quando l’ispirazione è autentica, il poeta avverte il bisogno di uscire da se stesso e di rivolgersi all’Altro, sia che si tratti dell’Altro sconosciuto, incontrato nel proprio io profondo o nella natura vivente (l‘Inconnu della poesia Le voyage di Baudelaire), sia dell‘Altro riconosciuto e chiamato per nome (l’Altro della fede), l’Altro, insomma, che è il non-identico a colui che prega.
Chiediamoci ora: quali sono le espressioni più ricorrenti del poeta in preghiera? Ne indichiamo alcune, le più paradigmatiche.

Anche il poeta ateo prega

Alcuni poeti si dichiarano atei o agnostici; talvolta però capita anche a loro di pregare: il bisogno di un Dio è più forte della loro negazione. Giorgio Caproni (1912-1990) vagola nel buio. Nessuna luce, nessuna fede. Dinanzi allo spettacolo dell’inconsistenza dell’essere, sente il bisogno che Dio esista. 
Se esiste lui, esistiamo anche noi; se svanisce lui, svaniamo anche noi. E prega Dio di esistere: Ah, mio dio. Mio Dio. / Perché non esisti (I coltelli). Forse hanno rubato Dio. / Il cielo è vuoto. Chi l’ha rubato? La ragione? la nostra cecità? Il Crocifisso, a motivo della sua bontà sconfitta? Non sappiamo. E preghiamo questo Dio, perduto ma non dimenticato, di
torna­re tra noi, di esistere (per noi).  Dio di volontà. / Dio onnipotente,   cerca / (sforzati!), a furia d’insistere / almeno d’esistere.
Sugli stessi ritmi nostalgici e implorativi si sviluppano alcuni versi di Aleksandr Zinov’ev (1922), l’autore del noto romanzo Cime abissali.  Ateo, esule dalla sua terra, così prega: Ti supplico, mio Dio, / cerca di  esistere, almeno un poco, per me, / apri i tuoi occhi, ti supplico. /[…] Forzando la mia voce, / io grido, io urlo: / Padre mio, ti supplico e piango:   / esisti!
Poeti atei che pregano sono anche Paul Celan (1920-1970), Gesualdo Bufalino (1920-1996), Attila Jozsef  (1905-1937).

«Respiro l’opera di Dio»

Scrive il poeta Paul Claudel  (1868-1955):«Quando mi desto al mattino, apro la finestra ai raggi del sole e respiro Dio! Allargo le braccia e respiro l’opera di Dio». La preghiera più comune dei poeti è la lode di Dio sia per le meraviglie del creato sia per lo stupore operato in noi dalla redenzione. Questa preghiera è contemplazione estatica, inno di ringraziamento, espressione di gioia.  Non di rado, questi motivi s’intrecciano e la preghiera si trasforma in un tripudio di voci.
Gertrud von Le Fort  (1876-1971),  negli Inni alla Chiesa, canta la bontà e la magnificenza di Dio per lo splendore e la ricchezza della Chiesa.  I versi riecheggiano la solennità dei Salmi e trasmettono la commozione del poeta per il dono che trascende ogni altro dono. Potente Signore della mia vita, voglio cantar le tue lodi su tutte le tre rive dell’unica tua luce! Voglio gettarmi col mio canto nel mare della tua magnificenza, e annegare di gioia tra le sponde della tua forza.
Alla von Le Fort si affianca la grande poesia di Paul Claudel (1868-1955). Egli contempla Dio attraverso la sua opera, la cui multiforme bellezza lo colma di stupore. Ammira l’uomo perché immagine di Dio, rivestito di gloria e di onore. Nel Creatore e Salvatore egli riconosce una sorgente di acqua e di fuoco, che zampilla dal di dentro.
Soprattutto Cristo, dono supremo di Dio, sconcerta ed esalta il poeta:  Guardate, guardate Dio che cammina attraverso la terra come un seminatore, e prende il suo cuore a due mani e lo getta su tutta la superficie del mondo (L’Evangile d’Isaie). La lode di Dio assume cadenze di preghiera nella poesia di Gerard Manley Hopkins (1844-1889), di Raissa Maritain (1883-1960), di Thomas S. Eliot (1888-1965), di Clemente Rebora (1885-1957), di Kahlil Gibran (1883-1931), di Rabindranath Tagore (1861-1941).

Una preghiera di perdono

Il poeta ha, più di ogni altro, un’acuta percezione della propria fragilità che lo porta sulle terre del peccato. è difficile che non avverta il richiamo del male e che non si trovi schiavo del suo peccato. Adagiarsi in esso? Alcuni fanno questa scelta, ma la vivono in chiave drammatica, che appesantisce e intristisce l‘anima, poiché l’uomo è fatto per il bene non per il male. Altri, consapevoli della loro debolezza, invocano l’aiuto dall’Alto. Aiuto e perdono. Le voci di questi poeti costituiscono un immenso poema dalle risonanze più varie. Ma in tutte c’è l’aspirazione al perdono, conseguentemente assumono il timbro della preghiera.
Paul Verlaine (1844-1896), poeta dalla vita avventurosa e sregolata, in Sagesse così prega: Ecco i miei piedi, viandanti frivoli / che non hanno corso all’appello della Grazia. / Ecco la mia voce menzognera e sorda / al tuo richiamo per una vita di penitenza. / Ecco i miei occhi, lampade di errore, / che si sono negati al pianto e alla preghiera. / Dio di tremore e Dio di Santità, / quanto è oscuro l’abisso della mia colpa! / Tu, Dio di pace, di gioia e di vita, / io, gorgo di paure e d’ignoranza.
Gli accenti del povero Verlaine trovano un’eco nella Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde (1854-1900). Nella durezza del carcere, nella desolata solitudine delle ore che non trascorrono mai, il dandy di un tempo, ebbro di avventure erotiche,  riscopre Cristo e la propria miseria. Ricordando l’episodio evangelico della peccatrice che spezza il vaso e profuma i piedi del Signore, così si  esprime: Felice l’uomo il cui cuore si spezza ottenendo il perdono: / come potrebbe altrimenti / liberarsi dal male? / E come, se non attraverso un cuore infranto, / potresti entrare tu,  Cristo Signore?
Poeti del perdono sono Giulio Salvadori (1862-1928), Max Jacob (1876-1944), Domenico Giuliotti  (1877-1956), Giovanni Testori (1923-1993). Un accento particolare hanno i versi di Giuseppe Ungaretti (l888-1970). Nella lirica Mio fiume anche tu  il poeta assiste alla devastazione operata dalla guerra. L’avverte anche sulla propria pelle. Una bestemmia gli sfiora le labbra. Si riprende e si rifugia nella pietà di Cristo. Cristo, pensoso palpito, / astro incarnato nelle umane tenebre, / fratello che t’immoli / perennemente per riedificare / umanamente l’uomo, / Santo,  Santo che  soffri, / Maestro e Fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / per liberare dalla morte i morti / e sorreggere noi infelici vivi; / d’un pianto solo mio non piango più.

Dinanzi alla Madre di Dio

Dinanzi alla Madre di Dio incontriamo quasi tutti i poeti. Il motivo è chiaro: in lei non soltanto c’è il riflesso della bellezza increata, c’è anche la gioiosa certezza di essere compresi, perdonati, amati. Dinanzi a lei i poeti sentono il richiamo della purezza e della speranza, la gioia dell’accoglienza nonostante il polverume che ci annebbia l’anima, la carezza materna che fa rivivere. Dietro il canto regale di Dante e di Petrarca, riecheggiano le voci di una schiera sconfinata di poeti che inneggiano alla Madre di Dio. 
Ne citiamo alcune: quelle di Tasso, Francois Villon, Calderon de la Barca, Manzoni, Rilke,  Huysmans, Verlaine, Claudel, Pasolini. Terminiamo con una voce semplice e familiare, quella di Italo A. Chiusano (1926-1995). Nella poesia Discorsetto a Maria, nella raccolta poetica Preghiere selvatiche, prima racconta la divina avventura di Maria, poi la contempla in cielo, e così la prega:
Ora lassù, / in una luce che nessuno concepisce / se non vedendola, non hai perso un filo / della tua tenerissima, / ferma, trepida, sor ridente / maternità. / Io ti parlo, quaggiù,   come alla buona / dirimpettaia, come alla suora / mistica e casalinga,  alla poetessa / tutta fuoco e sorriso,  alla mammina / che capisce e compatisce tutto. / Sei anche l’unica, la incoronata / regina, la sposa dello  Spirito. / Lo so, e ne gioisco. Ma lo eludo / per non intimidirmi. è il sottofondo / dorato alla tua piana, / cara affabilità, / e questa sola mi permette / di parlarti e invocarti nella mia / orgogliosa miseria.