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di Donato Cauzzo

In occasione della XXV Giornata mondiale del malato, l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Chiesa italiana ha pubblicato una “scheda teologico-pastorale” che aiuta a riflettere su alcuni aspetti della cura della salute e dell’assistenza ai malati. Uno dei sottotitoli è: Pane e senso: «Ogni uomo, soprattutto quando vive momenti difficili, ha bisogno di pane e di senso». Di pane certamente che consiste principalmente prendersi cura e dell’assistenza, ma anche di essere aiutato a dare un senso alle esperienze dolorose che vive. È quella componente dell’assistenza che oggi viene chiamata cura spirituale, ancora poco valorizzata e praticata.

Oggi si distingue tra la dimensione spirituale e quella religiosa, anche in considera­zione del plura­lismo culturale, etico e religioso che caratterizza il nostro tempo.

Si può intendere come spiritualità l’aspirazione dell’uomo a trovare un senso alla sua esistenza, l’insieme delle convinzioni e dei valori che lo guidano e in base ai quali organizza la sua vita, il bisogno di superarsi e di tendere alla trascendenza. 

Questa dimensione spirituale è anteriore all’adesione a un credo religioso o all’appar­tenenza a una Chiesa; essa assume la connota­zione più specifica di religiosità quando trova risposta in una fede e nella relazione con Dio e si esprime attraverso un particolare sistema di credenze, simboli e riti.

La spiritualità appartiene a ognuno di noi per il solo fatto di esistere, e concerne il rapporto con i valori che trascendono l’esistenza stessa. Aderire a un credo religioso può essere un modo di vivere la propria spiritualità. Secondo Victor Frankl, la dimensione spirituale, accanto a quella fisica e psichica, «è una nota caratteristica dell’uomo – anzi, si potrebbe dire, la nota più caratteristica, la più umana che possa esistere».

Tenendo presente questa distinzione, risulta evidente che la persona malata, disabile o anziana speri­menta un livello di sofferenza che non è puramente quella fisica, né solo psicologica o emotiva, e che si espri­me in una serie di bisogni spirituali che non si concretizzano necessariamente in una domanda reli­giosa. Ecco un parziale elenco della varietà di bisogni spirituali secondo le diverse aree della persona umana: l’area del rapporto con se stessi (come il senso della propria identità, il bisogno di autostima);  il rapporto con gli altri (il desiderio di coltivare i legami affettivi, il senso di appartenenza, il bisogno di solidarietà, il bisogno di sentirsi accettati, di sentirsi utili);  il rapporto con il cosmo, la storia (il contatto con la natura, il senso della storia, il bisogno di ricordare e di raccontarsi); la dimensione trascendente, il rapporto con il divino (avere degli ideali, nutrire delle speranze, esprimere la propria fede religiosa); il senso dell’esistenza  come esigenza di dare un significato “globale” alla propria vita, il senso della sofferenza, il bisogno di riconciliarsi col proprio passato e con gli altri, le domande sulla morte e sul “dopo”. 

Alla ricerca di senso

Fra i bisogni spirituali di chi sperimenta la sofferenza di una malattia grave, o ancor più dell’avvicinarsi della morte, ci sono dunque le domande di senso. Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo? Come si concilia tutto quanto ci hanno insegnato su Dio che è buono, se poi permette - o addirittura manda!- il male? Che significato può avere questa sofferenza per la mia vita? Che lezione ricavarne?

 Domande che si fanno più acute quando si è confrontati con la prospettiva realistica della morte, e che possono assumere il carattere di interrogativo sul senso stesso della vita e di bilancio dell’intera esistenza. Oltre che su quello che ci sarà “dopo”.

Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche ha scritto: «Chi ha un perché per vivere, può sopportare quasi qualsiasi come». La domanda di cura e di accompagnamento non viene pienamente esaudita dalla sola prestazione tecnica. Contiene in sé - più spesso implicitamente - anche la domanda sul senso del soffrire e del morire, e in definitiva sul senso della vita, della propria identità personale, la complessità dell’esperienza “umana” del soffrire. L’uomo sofferente chiede non solo la guarigione, ma anche un senso come  significato e direzione del vivere e del soffrire e, infine, della morte che si avvicina.

Di fronte all’enigma della condizione umana segnata dalla sofferenza e dalla morte (pensiamo allo scandalo della sofferenza degli innocenti, come i bambini, o al dramma delle grandi catastrofi collettive, dovute ai conflitti o a gravi calamità naturali), l’uomo di ogni tempo e di ogni cultura ha tentato di trovare delle risposte che ne alleviassero la drammaticità e il senso di assurdo. Nella ricerca di un perché e di un significato, però, constatiamo che spesso la ragione si scontra con l’incomprensione e qualche volta con l’assurdo. 

Scrive Marie de Hennezel, riflettendo sulla sua esperienza accanto a tanti malati terminali: «Smettere di chiedersi il “perché?”, non c’è niente da capire. Interrogarsi piuttosto su “a quale scopo?”, sulla finalità della sofferenza, sembra in effetti l’unico modo di darle un senso. A che scopo? Verso quali strade, verso quale esperienza di vita, verso quale coscienza mi portano la malattia o la sofferenza? Posso farne un’occasione di luce e di amore?».

Questa ricerca di senso può favorire la guarigione interiore e la riconciliazione con i propri limiti, con se stessi e con gli altri e infine, per chi è credente, anche con Dio.