Ai bambini tante volte viene evitato qualsiasi sforzo
di Graziella Fons
Il dolore dei bambini costituisce lo scoglio sul quale s’infrange la nostra rabbia di fronte al male nel mondo in cui i bambini sono vittime innocenti. L’irruzione di Gesù nella vita dell’umanità ha sconvolto ogni logica umana e là dove Gesù ha trovato la sua morte ignominiosa è spuntata la luce della speranza. Se la tenerezza di Dio nel cuore di Gesù ha trionfato sull’egoismo umano, allora si ha diritto di guardare il futuro illuminato dalla speranza. È una speranza che si modella lungo i sentieri tortuosi della vita. La palestra, dove si genera questo plasma divino, dono del Dio della vita, è la famiglia. Papa Francesco ha detto che «la famiglia da sempre è “l’ospedale” più vicino. Sono la mamma, il papà, i fratelli, le sorelle, le nonne che garantiscono le cure e aiutano a guarire». Gesù si è fatto uno di noi per conoscere il peso del soffrire e dare credito alla sua parola di consolazione; infatti: «Nessuna parola può essere credibile, se non sappiamo abitare i luoghi della sofferenza».
Solo guardando la realtà umana sofferente con lo stesso sguardo con cui ci guarda Gesù riusciamo a cogliere anche il senso del dolore innocente. È meritevole di grande attenzione la parola di papa Francesco quando afferma che «è importante educare i figli fin da piccoli alla solidarietà nel tempo della malattia». Il fuggire le circostanze difficili e faticose della vita «inaridisce il cuore e fa sì che i ragazzi siano anestetizzati verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la sofferenza e di vivere l’esperienza del limite - ha continuato papa Francesco –. La debolezza e la sofferenza dei nostri affetti più sacri possono essere per i nostri figli e i nostri nipoti, una scuola di vita e lo diventano quando i momenti della malattia sono accompagnati dalla preghiera e dalla vicinanza affettuosa e premurosa dei familiari». In questa esperienza non si tratta di rivestire dei colori del tramonto le albe della vita; si tratta di mettere in conto che la malattia, la morte attestano i nostri limiti, il nostro essere precario che ci spinge con la preghiera all’udienza con il grande medico della vita, che è Cristo Gesù, curatore del corpo e dell’anima e grande animatore della speranza. Viviamo in una società in pantofole, «consumatrice di anestesie», cultrice dei tanti diritti e dei pochi doveri.
Spesse volte, sono gli stessi genitori a evitare qualsiasi tipo di fatica e sempre pronti a concedere la soddisfazione di ogni desiderio. Capita spesso che per i genitori «ogni desiderio del bambino diventa un diritto» e, quindi, si cede e si rinuncia ad allenare alla fortezza e alla virtù della temperanza che è la capacità di moderarsi, avere il senso della misura. La Chiesa nella sua secolare tradizione chiama la temperanza «virtù cardine» su cui si muove la vita. Ai bambini, con frequenza, non solo è vietato ogni tipo di sforzo, ma gli sono nascoste le sofferenze e la morte delle persone. Un filosofo moderno, che non era un bigotto, nel secolo scorso ha scritto: «Gli uomini non avendo potuto guarire la malattia, la sofferenza e la morte, hanno deciso di non pensarci».
Nel tentativo di sconfiggere questo tremendo evento della natura, che è la morte, l’uomo armeggia ogni giorno per trovare la fiamma perenne della vita sulla terra, trascurando così quello che diceva il martire della libertà, Dietrich Bonhoeffer, la voglia di porre attenzione sul ruolo dei deboli per rendere più umana la società, convinti che sono le periferie della fragilità che danno un volto umano alla società. Non dobbiamo dimenticare quello che ripeteva san Giovanni della Croce:«Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore». Solo un’autentica passione di amore verso il prossimo è il farmaco che guarisce le ferite della vita.