Al termine della vita, sant’Antonio Maria Claret compose un breve ed essenziale opuscolo per raccomandare la devozione a san Giuseppe.
E per mettere in guardia dagli errori di Renan
di don Bruno Capparoni
L'Ottocento si può chiamare “secolo dell’Immacolata”, perché nel 1854 Pio IX proclamò il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria e nel 1858 a Lourdes la Madonna lo “confermò” dicendo alla giovane Bernadette Soubirous: «Io sono l’Immacolata Concezione». Ma si può chiamare anche “secolo di san Giuseppe”, perché nel 1870 Pio IX lo proclamò patrono della Chiesa universale e Leone XIII nel 1889, con l’enciclica Quamquam pluries, sviluppò il significato di tale patrocinio e propose la famosa preghiera: «A te, o beato Giuseppe…».
Veri “capiscuola” di devozione giuseppina, questi papi del secondo Ottocento furono seguiti da altri maestri di spiritualità.
Un santo vescovo spagnolo, Antonio Maria Claret (1870), è testimone autorevole della devozione giuseppina, anche attraverso i due istituti religiosi da lui fondati, i Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria (Claretiani) e le Religiose di Maria Immacolata (Missionarie Claretiane), che prolungano nel tempo il suo carisma.
La vita di sant’Antonio Maria Claret è stata ricca di zelo per il regno di Dio, ma anche di imprevisti causati dalle vicende sociali e politiche della Spagna di quel secolo. Nacque il 23 dicembre 1807 a Sallent, villaggio della provincia di Barcellona, in una famiglia modesta ma profondamente cristiana e, dopo una ricerca non facile della sua vocazione, diventò sacerdote nel 1835. Venne a Roma e tentò di entrare nella Compagnia di Gesù, ma poi rientrò in Spagna e si diede con gran frutto all’apostolato di missionario popolare, prima in Catalogna poi nelle isole Canarie. Aveva appena chiamato a collaborare in quel ministero i suoi Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria, quando fu nominato arcivescovo di Cuba (l’isola era allora colonia spagnola); vi rimase per dieci anni, esercitando un esemplare servizio pastorale. Nel 1859 fu richiamato in Spagna come “confessore” della regina Isabella II e risiedette alla corte di Madrid fino al 1868, quando la regina fu esiliata. Accompagnò la famiglia reale a Parigi per un anno; poi si recò a Roma per prendere parte al Concilio Vaticano I, che iniziò l’8 dicembre 1869. Nell’estate del 1870 lasciò Roma a motivo di una salute compromessa e si portò in Francia, dove morì il 24 ottobre 1870 nel monastero di Fontfroide, presso Narbona. Pio XII lo ha proclamato santo nel 1950.
Mentre si trovava a Parigi al seguito della famiglia reale, fu ospite per un anno intero delle Suore di san Giuseppe, che gestivano un istituto per l’educazione delle fanciulle. Stimolato da quell’ambiente di viva spiritualità giuseppina, pubblicò un breve scritto, La devoción a san José (Barcellona 1870, Libreria Religiosa, Imprenta G. Miró, 30 p.), dove espone in modo sostanzioso il fondamento della devozione al santo Patriarca.
L’opuscolo è suddiviso in due parti. Nella prima il Claret espone le due prerogative fondamentali di san Giuseppe: essere vero sposo di Maria Vergine ed essere padre putativo di Gesù; in questi due privilegi trova appoggio la potente intercessione del Santo e la sua grande “autorità” presso Dio. Sono i medesimi attributi con cui anche la Pia Unione del Transito di san Giuseppe lo invoca nella sua breve preghiera.
San Giuseppe attualizza la figura dell’antico Giuseppe: come Faraone affidò al figlio di Giacobbe il regno dell’Egitto, così Dio Padre ha affidato a san Giuseppe i suoi due tesori, Gesù e Maria. E la parola detta da Faraone nella Genesi: «Ite ad Joseph (Andate a Giuseppe)», la ripete ora Gesù Cristo con assoluta novità ed efficacia: «Rivolgetevi a san Giuseppe; egli è il mio padre e il mio amico». A prova poi della potente intercessione di san Giuseppe, da vero spagnolo il Claret ricorda le esortazioni di santa Teresa d’Avila a pregarlo con piena fiducia e confidenza.
Nella seconda parte dell’opuscolo Claret espone brevemente la caratteristica della vera devozione a san Giuseppe, che consiste nel vivere imitando le sue virtù. Egli è un modello per i cristiani in ogni stato: celibi, sposati, sacerdoti e religiosi, che seguono il suo esempio «nell’amore al lavoro, nella pazienza nelle persecuzioni e nell’amore alla Vergine Maria». Questa la sintesi semplice della spiritualità giuseppina di sant’Antonio Maria Claret.
Nel medesimo opuscolo, do-
po il suo breve testo il Claret volle che seguisse, tradotto in spagnolo, un articolo del sacerdote francese Jean-Joseph Gaume, scrittore e polemista allora molto famoso, pubblicato dal quotidiano Le Monde il 30 gennaio 1869. Si tratta di un’aggiunta molto significativa.
Alcuni anni prima, nel 1863, il filosofo Ernest Renan aveva pubblicato a Parigi la Vie de Jésus, biografia di grande successo dove Gesù era presentato rifiutando la sua divinità; in una prospettiva totalmente positivista, era considerato un’altissima personalità morale, priva però di ogni elemento soprannaturale. Numerosi cattolici avevano fortemente confutato Renan e tra essi anche Jean-Joseph Gaume, che nell’articolo tradotto da Claret riassumeva un suo libro, pubblicato nel 1867. Aggiungendo al suo testo di indole devozionale l’articolo di Gaume, il santo vescovo si preoccupava di rendere avvertiti i lettori spagnoli dei gravi errori di Renan.
Sant’Antonio Maria Claret ave-
va intuito con chiarezza il pericolo dirompente delle posizioni di Renan per la fede del popolo cristiano; nello stesso tempo fissava nella devozione a san Giuseppe il punto fondamentale del culto verso a santi. Questi non sono altro che i maestri, dai quali imparare «la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, in cui consiste la santità» (Lumen gentium 50).